Il signor Eugenio Boschi , che abita a Mantova ed è nativo di Bozzolo, è una persona squisita e di una generosità insospettabile. E appena si accenna al maestro Paccini i suoi occhi si illuminano e il desiderio di raccontare fatti episodi, avvenimenti si fa prepotente. E ricordi molto lontani riaffiorano alla memoria, peraltro molto prodigiosa, in modo molto vivo e intenso. Insomma traspare un amore profondo verso la figura del Maestro Paccini che pur non essendo stato suo maestro di musica, lo ha “contagiato” in modo permanente. E il Boschi per molti anni, pur non avendo studiato musica, ha “fatto musica” come instancabile animatore della Società della Musica di Mantova. Egli ha avuto l’opportunità di incontrare grandissimi personaggi del mondo musicale; direttori quali Carlo Maria Giulini, Mutti, cantanti come Pavarotti o il suo Maestro Campogagliani e tanti altri. Tuttavia, nonostante egli abbia avuto tutte queste opportunità , dobbiamo ripetere che il Maestro Paccini lo ha segnato più di altri. Forse perché lo ha incontrato nel periodo più delicato della vita e cioè la fanciullezza.
A dicembre 2009 abbiamo chiesto di incontralo e volentieri ci ha ospitato nella sua casa. Ci ha mostrato tutto il materiale di cui disponeva e ci ha permesso di sfogliare ogni foglio. Con grande soddisfazione abbiamo trovato dei volumi manoscritti che senza dubbio sono riconducibili alla Déruchette in quanto il testo fa inequivocabilmente riferimento al libretto dell’opera sebbene sul frontespizio ci si sia scritto “GILLIAT”.
Qui riportiamo alcuni stralci dell’incontro:
Signor Eugenio Boschi come è arrivato a possedere tutto questo archivio?
Tutto ciò che ho del Maestro Paccini mi è arrivato come archivio del Maestro Pietro Melegoni, l’unico allievo di spessore che abbia avuto Paccini nonostante questi abbia preparato circa centocinquanta ragazzi.
Negli ultimi anni, dal ‘40 al ‘45, quand’è morto, aveva i suoi venti-trenta ragazzi che riuniva almeno due volte alla settimana per far musica. Ha insegnato loro a suonare tutti gli strumenti ad arco e il pianoforte dato che si era diplomato all’Istituto Ciechi di Milano in pianoforte, organo e violino.
E come ha conosciuto il maestro?
Perché il Maestro abitava a cinquanta metri da casa mia.
Siccome era cieco, quando da ragazzo, a sette-otto anni, lo vedevo uscire dalla casa e che doveva passare sulla via, spesso e volentieri uscivo di fretta per prenderlo sotto braccio e accompagnarlo alla scuola.
La nostra strada era una via di poche case perché teneva tutta la cinta del vecchio cimitero con la chiesa della Santissima Trinità; nel vicolo c’erano sette case perciò anche noi ragazzi non è che fossimo molti, eravamo in due o tre e tutti ci prendevamo cura del Maestro: di ciechi non ce n’erano molti a quel tempo!
Il Maestro allora usciva e sapeva che trovava uno di voi…
Sì ma poi continuava da solo: qualche volta è andato anche da casa sua alla scuola musicale senza aiuto; non c’era il traffico di adesso ovviamente.
Dopo l’avviamento, all’età di tredici-quattordici anni, avrei voluto anch’io fare qualcosa a livello musicale ma non lo feci perché il Maestro mi disse “forse a fare il musicista, in questi anni, non c’è tanto da vivere”. Non come capita adesso: uno può studiare letteratura e poi buttarsi sul ramo della musica.
Quindi io ho seguito il Maestro e imparato da lui sentendolo parlare della sua vita e della sua musica.
Nel 1900 vinse un premio internazionale per l’organo di Notre Dame. Andò a Parigi, suonò il concerto inaugurale e poi fece altri tre o quattro concerti su quell’organo. Si mise via un gruzzoletto e non tornò subito a Bozzolo: si fermò due anni a Parigi.
Lì almeno quattro sere alla settimana era solito andare dove si trovavano i vari Satie, Debussy e altri. Mi raccontava che quelle erano delle serate nelle quali le discussioni si portavano avanti fino alle cinque del mattino.
E il Maestro che si trasformava nella voce quando parlava di Debussy; nei racconti delle nottate di Parigi capivi l’uomo che si era formato dopo aver vissuto una esperienza così forte
Sentirete comunque nel secondo movimento del Quartetto che ho recuperato, che c’è tanto Debussy, un qualcosa di Puccini e di altri, come dicono gli addetti ai lavori.
Dopo i due anni a Parigi tornò all’Istituto Ciechi sperando di avere un insegnamento, e lì a Milano restò qualche anno vivendo presso l’Istituto.
Quindi a Milano potrebbe essere che vi siano altri documenti…
A Milano, durante la guerra, l’Istituto è stato bombardato: parecchio materiale di quegli anni è quindi scomparso. Però bisognerebbe entrare e vedere nell’archivio cosa si trova.
Il Maestro, durante questo periodo, trovò a Milano un senatore del regno, Innocenzo Cappa, liberale, che gli diede un libretto: l’Alessandra. Il Maestro lo musicò e nel 1910 il senatore trovò modo di farla mettere in scena al Verdi di Milano; lì la presentarono per nove sere consecutive.
Il Maestro rimase a Milano ancora un paio d’anni e poi tornò a Bozzolo, non essendoci grande spazio per lui.
E a Bozzolo cosa fece?
Cominciò ad avere allievi: le chiameremo le élite, erano quelli che volevano imparare a suonare qualche strumento… per poi andare a serenate, intendiamoci!
Il Maestro ne preparò centoquarantotto.
E’ un numero significativo! Vuol dire che ha creato qualcosa di importante…
Sì, in vent’anni ha creato dei ragazzi autentici…
Dal ‘12 al ‘32…
Sì, dopo non c’è più stato nessuno.
Dopo c’è stata guerra in mezzo…
Sì, lui ha vissuto la guerra in una miseria spaventosa ed è morto il 6 maggio; il funerale è stato fatto il 7 maggio del ’45.
Paccini morì di notte e ai funerali parteciparono sei uomini e una donna. Il paese non partecipò perché le case erano ancora chiuse per la manifestazione che era stata fatta due giorni prima e poi perché gli animi non erano sereni.
Fu sepolto nella terra comune e lo si portò con un carro funebre da pochi soldi; ecco, questa è stata la morte del Maestro Paccini.
Nel ’55 abbiamo trasportato il Maestro in una tomba, in terra comunale, e gli abbiamo fatto fare un monumento: c’è anche la dedica “Oltre L’Ombra…”; per la sera fu organizzato un concerto.
Al concerto cantò Tito Schipa che nel 1912 aveva debuttato a Bozzolo. Quando noi, e dico noi perché allora facevo parte del comitato, gli scrivemmo che volevamo ricordare il Maestro Paccini (lui l’aveva conosciuto nel ’12) lui rispose subito che sarebbe venuto volentieri a cantare; cantò due o tre romanze alle quali lo accompagnò il Maestro Melegoni e gli affiancammo anche Margherita Benetti
Il Braille dei volumi che ci sono stati consegnati dal Comune di Bozzolo non sono di facile lettura…
Lo credo bene. Dovete tener presente che questo Braille è rimasto cinquant’anni in un solaio, in mezzo alla polvere, e il peso ha schiacciato i punti: quando l’ho portato al maestro Garganese mi ha detto “Guarda che qua si fa fatica a leggere”
Lei crede che i Figli del Maestro Melegoni possano avere altro materiale?
No, tutto il materiale musicale di Melegoni è qui da me: è stato tutto lasciato a me, pianoforte e tutto il resto. Ho fatto una cernita anche: ho diviso il materiale che adoperava Melegoni come compositore, pianista e insegnante da tutto quanto quello che invece riguardava Paccini.
Paccini aveva una famiglia a Bozzolo?
Aveva una zia. I genitori erano morti presto e questa zia, quando lui è tornato da Milano a Bozzolo, l’ha tenuto in casa con sé. Lei aveva una piccola rendita, la casa era sua e l’ha accudito finché è morta. Poi è stato accudito per qualche anno da alcune signore e poi è rimasto solo. A quel tempo tutti vivevamo in miseria quindi non poteva permettersi qualcuno che si prendesse cura di lui.
Il comune di Bozzolo ha goduto di prosperità fino agli anni ’20 grazie a una grande azienda: la fabbrica di carrozze. Per trent’anni Bozzolo è stato il maggior costruttore di carrozze, dei landò.
Della Déreuchette cosa ci sa dire?
Della Déreuchette io ho avuto poche notizie dalla sua viva voce. Sembrava quasi che lui la tenesse un po’ nascosta, che fosse geloso della sua opera. Tra l’altro io nel ‘43-‘44 ho fatto l’ultimo anno di guerra a Milano, quindi l’ho perso di vista, e quando sono tornato purtroppo è morto.
E chi potrebbe avergli commissionato un’opera così?
Nessuno. È stata un’iniziativa tutta del Maestro. Mentre l’opera dell’Alessandra no.
Ricordo che in aula, di fianco al pianoforte, c’era anche un dattiloscritto che doveva essere la trama dell’opera. Invece ricordo molto bene i quartetti: quando c’era la serata, soprattutto il venerdì, eravamo in otto-dieci-dodici con lui e diceva “Facciamo i quartetti-facciamo i quartetti!”. Se la serata era andata bene allora era raggiante e si concludeva andando a bere qualche bicchiere di vino e se poi trovavamo la casa giusta…! Spesso e volentieri la mia casa era l’ultima, infatti la preoccupazione di mia madre, prima di coricarsi a letto, era quella di mettermi nel cassetto del tavolo il salame, il formaggio e nell’angolo i bicchieri e il cavatappi per gli amici.
A volte lo portavo sulla canna della bicicletta: ero il più giovane, non avevo lo strumento, allora portavo il Maestro! L’ho portato in bicicletta anche le sere dei piccoli concerti degli anni ’41-‘43, ad Ospitaletto, a Casatico, a Bozzolo, a Rivarolo! Era una festa per tutti noi ma era una festa anche per lui!
Proviamo allora a formulare un’ipotesi, chi potrebbe aver trascritto in nero questi fogli che sembrano riferibili alla Déruchette?
Proprio non ne ho idea. Voi che siete degli esperti potreste confrontare questa calligrafia con delle altre, solo che devo andare al Conservatorio di Mantova per ritirare il materiale che avevo consegnato perché venisse trascritto quando nel ’96 abbiamo fatto il Cinquantesimo anniversario! Per esempio potreste vedere la Suite, i due Pezzi per Pianoforte, Le Campane della Mia Parrocchia…
Lei parla della Déreuchette come se fosse l’opera più importante che avesse scritto il Paccini.
Sì, anche perchè Roberto Manfredini l’ha sempre sostenuto. Durante il periodo in cui scrisse la Déruchette il Paccini si era molto avvicinato a Wagner, anche se è rimasto fondamentalmente legato ai musicisti francesi dai quali ha assimilato molto. Una cosa che suonava spesso alla tastiera, quando al pomeriggio non c’era nessuno, quando aveva voglia di suonare per sé, era Lohengrin di Wagner
La calligrafia della Déreuchette può essere di Melegoni?
No, la calligrafia di Melegoni non è questa. Potrebbe essere quella di Vischi, un geometra che scriveva molto bene… Cercherò di recuperare la calligrafia di Vischi, di quando ha scritto sotto dettatura del Maestro, ve la farò vedere..
Il signor Boschi ci fa vedere anche la calligrafia di Melegoni per compararla.
Afferma di avere anche parti della Suite, ma solo il Violino Secondo: si nota che Melegoni aveva una scrittura perfetta, che pareva una stampa.
Boschi vuol mostrarci anche il manoscritto del Quartetto.
Nel frattempo si decide che bisogna confrontare il manoscritto trascrtitto in nero con il Braille in nostro possesso . Gentilmente il signor Boschi ci permette di portare con noi i manoscritti così preziosi che ci impegniamo di fotografare.
Salutiamo Il signor Boschi ringraziandolo per la squisita accoglienza , non prima di aver notato il suo antico pianoforte verticale che tiene nel salotto. Si accorge della nostra attenzione e ci tiene ad informarci che il pianoforte è sempre dono del caro amico Melegoni e che questo pianoforte in un lontanissimo futuro ritornerà al comune di Bozzolo. Poi notiamo una targa sopra lo strumento con su scritto “Diploma di musicista ad Eugenio Boschi ”. Vedendo la nostra sorpresa , visto che ci ha detto che non ha mai studiato musica, ci tiene a precisare che questa targa può essere definita un “diploma honoris causa” donato dagli amici del conservatorio di Brescia per tutto il suo impegno profuso in questi anni nel mondo della musica. Crediamo che gli amici di Brescia abbiano perfettamente ragione!