Dopo il 1943, infatti, anno che si dice quello di «nascita» del succitato Quartetto per archi, il maestro - questo è certo - andò sempre più abbandonando la sua attività. Le forze cominciavano a venirgli meno. Il morale non era più lo stesso. Rimasto solo, dopo la morte della vecchia zia, vide ridursi sempre più anche le già modeste possibilità economiche. E dovette trasferirsi in Piazza Italia (ora Piazza Europa), al n° 10, in un locale offertogli dal Comune. «Un buco, senza neppure i servizi igienici» ripeteva spesso, con pena, il comm. Zangrossi. E visse così, senza altri aiuti, se non quello dell'Ente Comunale di Assistenza e forse di qualche persona caritatevole. La guerra, la II guerra mondiale, gli aveva portato via anche molti dei suoi «ragazzi». Chi in Grecia, chi in Africa, chi in Russia. E qualcuno non fece neppure più ritorno. E il maestro rimase solo «solo col suo piano, la sua musica, le sue mani. Ma ben presto anche le sue mani, che abbiamo veduto tante volte con agilità delicata e viva sensibilità piegarsi e correre sulla tastiera, incominciarono a tremare. E la povertà si fece miseria» ricordava don Mazzolati.
Un mattino non fu visto uscire. Qualcuno si allarmò e andò a bussare alla sua porta. Nessuno aprì. La porta fu
allora forzata. Il maestro era disteso per terra. Non parlava. Fu portato all’ospedale. «Finalmente un letto, due lenzuola candide, un po' di calore umano. Il povero maestro, così attento ad ogni filo di bontà, ritrovava qualche cosa di quello che nella vita aveva perduto e di cui non aveva mai, attraverso il rimpianto, fatto sentire l'accusa» come disse ancora don Mazzolati.
E là, all'ospedale, morì il 6 maggio 1945.
Erano brutti momenti quelli. La guerra era appena terminata. Economicamente stavano tutti male o poco bene. Parecchi allievi erano ancora lontani: chi nei campi di prigionia, chi nelle zone di guerra. Così il maestro non ebbe gli onori che si sarebbe meritati. Una semplicissima bara di legno non certo pregiato - ricordava con rammarico il comm. Zangrossi - e neppure i soldi per un crocifisso da applicarvi. Ne prestò uno il signor Silvio Zanetti perché la bara ne fosse provvista almeno durante la cerimonia religiosa, anche quella semplicissima. Crocefisso che fu poi svitato e restituito al proprietario, prima della tumulazione nella nuda terra. «Avevamo tante cose cui pensare in quei giorni. Avevamo tutti il cuore sospeso e occupato da tanti altri morti e da tante altre pene. E ancora una volta il maestro è passato ignoto al suo paese. E al cimitero l'abbiamo deposto come si depongono i poveri». Sono ancora parole di don Primo.
Ma per chi aveva stimato il maestro e per chi era stato legato a lui da affetto e ancora sentiva di dovergli riconoscenza, quella sua sepoltura «indegna» rimase una spina nel cuore.
Il ricordo del maestro, vestito di nero, un vestito un po' liso, il colletto alto, i polsini di celluloide e sempre con quella dignità e signorilità nella miseria degna di massimo rispetto e di venerazione, il ricordo del ticchettio della sua canna quando, per via Poma e via Beccherie (ora via Mameli) si dirigeva da solo verso la scuola, invece di affievolirsi si faceva sempre più acuto. Bisognava dare al maestro quello che non aveva avuto. Bisognava restituirgli quella gloria, quegli onori che avrebbe meritato, ma che le circostanze avevano impedito gli fossero dati.