Uno dei non molti allievi sopravvissuti, Arturo Chiodi, così rievoca, per noi, gli anni lontani di una «scuola» che fu davvero un sodalizio indimenticabile di amici appassionati e devoti.
"Mi rivedo ancora su quel minuscolo palcoscenico, terribilmente impacciato nella stretta giacchettina ricavata da un vecchio abito di mio padre, i pantaloncini corti sopra i bianchi calzerotti. E ancora sento l’emozione che rischiava di bloccarmi le dita in quella mia prima esibizione da «violino solista» fin troppo in erba. Dovevo eseguire la «Fantasia pastorale» di un autore francese, J.B. Singelée, di cui conservo ancora lo spartito. Al pianoforte, a sostenere la fragilità delle mie arcate, cera lui, il Maestro.
Era la primavera (o forse l'autunno) del 1931. Avevo undici anni. La «sala» del concerto era il teatrino - divenuto, molto più tardi, «cinema parrocchiale» - addossato all'abside di San Pietro. Non so quale successo abbia ottenuto, allora, la mia acerba esecuzione. So, però, una cosa: che da allora il «tarlo» della musica non mi ha più abbandonato. Con gli anni, anzi, è divenuto passione: sempre accesa, mai del tutto appagata, perché mai disgiunta dal rimpianto di non aver potuto dedicare interamente allo studio e all’interpretazione musicale le mie risorse - poche o tante che fossero –e le mie ambizioni.
In quegli anni tra le due guerre - alla scuola del Maestro Faccini ero entrato nel 1929 - il gruppo degli allievi era quello che comprendeva Chiribella, i fratelli Cominotti, Germiniasi, Vischi, Pancera, Rosa, Zangrossi: essendo un po' più giovane, mi consideravano una specie di "mascotte" e mi volevano bene.
Avevo partecipato ben presto all'«insieme», quando ancora ero alle prese con gli studi, quelli di primo grado, di Mazas (al «Kreutzer» sarei arrivato parecchio dopo): il maestro, per il mio immediato ingresso nel mondo dell'esecuzione mi aveva assegnato alle campane: quelle tubolari, si intende, per orchestra.
Ebbene, credo di poter dire che noi tutti, nel legame di una amicizia destinata a durare per la vita, sentivamo di ricevere dal Maestro Paccini un dono inestimabile, di cui noi superstiti gli siamo ancora debitori: il dono della «gioia della musica».
Ripensando, adesso, a quei tempi, e misurando il patrimonio della nostra «memoria musicale storica» con l'alluvione delle esecuzioni offerte dai moderni strumenti di registrazione e di riproduzione, ci appare davvero sorprendente la familiarità acquisita in quegli anni tanto lontani - in quella stanza disadorna, con quel pianoforte a mezza coda, mediante quei «saggi» scolastici, e quelle «prove d'orchestra» - con un repertorio tanto vasto di musica colta universale.
Il fatto è che, al di là della lezione puramente strumentale, contava, per noi, in misura straordinaria, la capacità del Maestro di riversare nella nostra sensibilità il senso vero della sua vocazione. Quando ci si metteva, dopo le prove, attorno al piano, e lui si abbandonava alle confidenze, ai ricordi, alle rievocazioni del suo mondo interiore, dando la parola alla tastiera, allora davvero la musica diventava, nello stesso tempo, una scoperta e un tesoro.
Io non riuscirò a dimenticare, ad esempio, la «lezione» che in una di tali circostanze il Maestro ci regalò illustrandoci al piano gli innumerevoli temi dell'«Anello del Nibelungo» - la ben nota tetralogia wagneriana - portandoci così, in quel tempo tanto avaro di frequentazioni culturali, «dentro» i misteriosi itinerari dell'ispirazione.
È vero: negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, i «saggi», i «concerti» divennero sempre più difficili e rari. Qualcuno a Bozzolo, in ambienti di fortuna, qualcun altro nei paesi vicini, magari è capitato a San Martino dall'Argine - nella «barchessa» di una casa colonica.
Ma anche tra le difficoltà che incontravamo e che cercavamo di superare alla bell’e meglio, quel nostro familiare «Carro di Tespi» un suo valore continuava ad averlo: quello di riuscire a portare la voce e i suoni della «grande» musica tra gente umile, in gran parte contadina, che tuttavia ne sentiva e ne accettava, istintivamente e quasi prodigiosamente, il suggestivo richiamo, l'incanto sottile.
Ci siamo ritrovati ancora, tra scampati, alla fine della guerra. È stato bello rivederci e suonare assieme: ma il nostro Maestro non c'era più".